martedì 26 maggio 2015

Land grabbing or land to investors? - Alfredo Bini



da qui

L’aria è quella tipica del deserto Saudita al mattino. Secca, fresca, salubre. Camion carichi di cereali s’incolonnano sulla polverosa strada di Al Kharj, due ore a sud di Riyadh, per scaricare il contenuto nella più grande fattoria casearia integrata del mondo, l’Almarai. La metà degli oltre due milioni di tonnellate di foraggio, consumato annualmente dalle centomila vacche da latte, proviene da appezzamenti di terra coltivata all’estero. 

Il sole etiope è allo Zenit, la terra tanto sterile e slavata da rendere impossibile camminare senza alzare nuvole di polvere giallastra che riempie la bocca e il naso. Un operaio arraffa con le mani nude quanta più terra può, e copre le talee di canna da zucchero di una nuova piantagione. Infatti, il clima caldo e l’abbondanza d’acqua fanno dell’Afar il luogo eletto per la produzione di canna da zucchero. Poco distante i fumi della raffineria di biofuel si diffondono sulla piantagione che in passato era un pascolo. 

L’enorme soffitto a volta della sala dei ricevimenti è luccicante e d’orato come nell’immaginazione delle mille e una notte. Più sotto il presidente del Mozambico e altri dignitari africani si dividono le attenzioni dei governanti dei paesi del Golfo; ma si dividono anche l’Africa, visto che partecipano a una conferenza sulla promozione di investimenti per acquisire terreni agricoli in paesi in via di sviluppo: il Land Grabbing. 

Il Land Grabbing nacque in seguito alla crisi alimentare del 2007 e al conseguente rialzo dei prezzi delle materie prime agricole che fece iniziare la corsa alle terre coltivabili. Il fenomeno si contraddistingue per non avere il consenso della popolazione locale, in violazione dei diritti umani e in mancanza di un adeguato studio dell’impatto socio-ambientale dell’investimento. L’Università della Virginia l’ha definito come un accordo per accaparrarsi appezzamenti agricoli di almeno 200 ettari che converte in produzione commerciale un’area naturale in precedenza usata dagli abitanti locali. 

In ogni continente, eccetto l’Antartide, è possibile imbattersi nel Land Grabbing, e nonostante la terra coltivabile sia stata da sempre usata come forma di controllo sociale, questa è la prima volta dalla fine del colonialismo che gli stati sovrani e le istituzioni governative dei paesi sviluppati promuovono una simile pratica.
Le risorse finanziarie allocate dai paesi Arabi, le politiche d’incentivo al consumo di biofuel della Comunità Europea e degli Stati Uniti, le assicurazioni private, i carbon trade, i finanziamenti della banca mondiale, e il prezzo irrisorio della terra, concessa di solito dai governi locali in modo incondizionato, sono tutti fattori che azzerano il rischio dell’investimento, rendendolo estremamente redditizio. 

Controllare la terra significa assumere anche la totale gestione delle risorse idriche presenti sul territorio, con impatti devastanti sulla vita della popolazione locale. 
Il 5,7% degli abitanti mondiali controlla attraverso il Land Grabbing, il 40% delle risorse idriche globali, una quantità d’acqua che sarebbe sufficiente a nutrire adeguatamente 300-390 milioni di persone, la metà della popolazione malnutrita del mondo. Stati Uniti, Emirati Arabi, India, Gran Bretagna, Egitto, Cina e Israele sono responsabili del 60% di questo scambio d’acqua virtuale. 

Imprenditori e politici discutono gli investimenti e le strategie in conferenze distanti migliaia di chilometri dalla terra che andranno a controllare, e ideologicamente ancor più distanti dalle persone che la usano per sopravvivere. 

La scelta di svolgere questa ricerca in Etiopia è stata naturale: è discutibile l’eticità di trarre profitto da prodotti coltivati in un paese mentre i suoi abitanti muoiono di fame. Sei milioni di etiopi, infatti, sopravvivono solo grazie agli aiuti alimentari distribuiti dalle Nazioni Unite – uno dei programmi d’aiuto più costosi del mondo. Al tempo stesso, aerei cargo decollano giornalmente carichi di verdura fresca e rose, con destinazione finale gli alberghi degli Emirati Arabi e i mercati di fiori olandesi. Il paradosso è più che evidente.

lunedì 25 maggio 2015

un interessante articolo sulle agromafie e nuovi schiavi

Alle tre di notte le donne del Brindisino e del Tarantino sono già in strada. Indossano gli abiti da lavoro e hanno in mano un sacchetto di plastica con un panino. Nei punti di raccolta, agli angoli delle piazze, alle stazioni di benzina, aspettano il caporale che viene a prenderle con l'autobus gran turismo per portarle sui campi, dove lavorano sfruttate e ricattate, a volte anche con la richiesta di prestazioni sessuali. Sono soprattutto italiane, più affidabili, ma soprattutto più "mansuete" delle lavoratrici straniere, protagoniste in passato di proteste e denunce.

Per costringere le italiane al silenzio non servono violenze fisiche. Basta la minaccia "domani resti a casa". "I proprietari dei pullman sono i caporali. È a loro che ci rivolgiamo per trovare lavoro in campagna o nei magazzini che confezionano la frutta", racconta Maria, nome di fantasia, che ha 24 anni e lavora sotto i caporali da quando ne aveva 16. Secondo le stime del sindacato Flai Cgil, sono 40mila le braccianti pugliesi vittime dei caporali italiani, che in molti casi hanno comprato licenze come agenzie di viaggio, riuscendo così ad aggirare i controlli.

Il reclutamento. "Nei paesi ci sono delle persone, generalmente sono delle donne, che fanno da tramite tra chi vuole lavorare e il caporale. Raccolgono i nominativi per lui - racconta Antonietta di Grottaglie - Il caporale decide dove mandare a lavorare le braccianti e quello che deve essere dato come salario. Cercano di non avere uomini, anche per i lavori pesanti, perché le donne si possono assoggettare più facilmente". Antonio, altro nome di fantasia, è ancora più esplicito: "Non vogliono stranieri, il motivo è che loro si ribellano e gli italiani no: ci sentiamo gli schiavi del terzo millennio, ci hanno tolto la dignità"…
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giovedì 21 maggio 2015

crescono i mercatini dell'usato - Antonio Cianciullo

Più 7% in un anno, 23 mila tonnellate di oggetti recuperati, oltre 100 mila tonnellate di CO2 evitata. Il boom delle bancarelle dell'usato e dei mercatini vintage fotografa un altro tassello degli stili di vita in cambiamento. Certo la crisi - almeno da questo punto di vista - aiuta, carica la molla del risparmio. Ma il cambiamento che emerge dall'indagine condotta dal Centro di ricerca economica e sociale Occhio del riciclone in partenariato con Mercatino srl, il franchising dell'usato in tutta Italia, appare strutturale.
E' la definizione di "consumatore" che comincia ad andare stretta perché fa pensare all'usura del pianeta, al prezzo crescente che paghiamo per il prelievo crescente di materie prime a spese dell'equilibrio degli ecosistemi. Un disagio che fa avanzare l'economia circolare e la sharing economy: i nuovi modelli che permettono di utilizzare beni e servizi di alta qualità abbattendo l'impatto ambiental
 Così il mercato dell'usato diventa una miniera green e agli oggetti viene regalata una seconda vita, meno costosa dal punto di vista ambientale. Secondo i dati contenuti nella ricerca, negli oltre 200 punti vendita dell'usato della catena di franchising sono stati venduti 9 milioni e mezzo di oggetti, pari a 23.722 mila tonnellate di materiali recuperati. E' l'equivalente di tutti i rifiuti urbani prodotti da Rieti in un anno.
Lo studio è stato condotto su 29 categorie merceologiche di beni usati. Individuato il set di prodotti (abbigliamento, elettrodomestici, oggettistica, arredamento, audio-video, hi-tech, hobby e sport, ecc) è stata realizzata un'analisi sul ciclo di vita di ogni tipo di bene per misurare l'impatto ambientale evitato grazie all'acquisto dell'oggetto usato.
"Inseriremo questi dati su un'etichetta per rendere l'informazione trasparente: così ognuno potrà conoscere le conseguenze dei suoi acquisti", ha spiegato Sebastiano Marinaccio, presidente di Mercatino srl, l'azienda europea più estesa nel suo settore con oltre 10 milioni di clienti totali, presentando i numeri alla Convention nazionale a Garda. "L'indagine ha dimostrato anche quantitativamente che estendere la vita dei prodotti tramite il riutilizzo
è un mezzo efficace per contribuire alla conservazione delle risorse, alla riduzione delle emissioni di gas serra e della diminuzione dei rifiuti. Inoltre consente di soddisfare la domanda dei consumatori senza la produzione di nuovi prodotti: si abbattono gli sprechi".

mercoledì 20 maggio 2015

Al cospetto del dio Petrolio – Gruppo d’Intervento Giuridico

“Un’altissima lingua di fuoco, notte e giorno, secondo la legge del ciclo continuo del petrolio, illumina le antiche tanche: è la Fiaccola, la lunghissima torcia che brucia tutti i gas di scarico della Raffineria e li scaglia, simile ad un drago vampante fiamme, contro l’azzurra indifferenza del mare e del cielo.
Il petrolio grezzo esce dal ventre delle navi petroliere, nero e giallo come l’occhio della vipera, scorre freddo dentro i tubi, va a scaldarsi le vene nei forni di distillazione, entra in orgasmo nei talami a serpentina, si accoppia come una bestia immonda dai mille sessi dentro le torri di frazionamento e, infine, partorisce migliaia di figli: benzina, vaselina, glicerina, paraffina, metano, butano, esano, ottano, etilene, acetilene, propilene, polisti-rene, alchilati, nitrati, clorati, solfonati, eccetera, eccetera, eccetera …
Gli operai di Sarrok non hanno più bisogno di Dio. Se c’è buio, Lui, il Petrolio, fa luce. Se c’è freddo, Lui, il Petrolio, aziona i termosifoni. Se c’è caldo, Lui avvia i condizionatori d’aria. Se l’acqua non viene dal cielo, Lui la cava fuori dal mare col dissalatore … il Petrolio, col suo ciclo continuo, non permette nemmeno di santificare le feste, non permette che s’interrompa il lavoro neppure la Domenica, giorno del Signore, neppure a Natale, neppure a Pasqua. Il vero, unico, Dio, a Sarrok, è Lui, il Petrolio. Non c’è altro Dio all’infuori di Lui.” (Francesco Masala, Il parroco di Arasolè [Il dio Petrolio], Ed. Il Maestrale, 2001).


 “Nell’ultima settimana la puzza di gas è diventata insopportabile: ogni sera dopo le 21 in paese l’aria si fa pesante … Nell’incontro con il Comune siamo giunti alla conclusione che occorre convocare al più presto un tavolo di confronto con i tecnici della raffineria per trovare una soluzione a questo problema … Mi chiedo cosa accadrà quando arriverà l’estate, ci auguriamo le persone non siano costrette a tenere ben chiuse le finestre per impedire alla puzza di entrare in casa. Non stiamo cercando lo scontro con la Saras, ma un dialogo proficuo per trovare soluzioni a questo disagio … “ (Teresa Perra, presidente dell’associazione Aria Noa di Sarroch).


“Le centraline di rilevamento non hanno registrato un aumento delle sostanze inquinanti, tuttavia chiediamo alla Saras una gestione più accurata degli impianti, delle vasche e dei serbatoi. Nel corso della prossima riunione della Commissione ambiente discuteremo con i tecnici Saras di queste criticità e della necessità di avere una migliore sicurezza”. (Salvatore Mattana, sindaco di Sarroch).


A Sarroch, nel 2012, gli impianti Saras s.p.a. hanno emesso  5.930.000 tonnellate di anidride carbonica (CO2) nell’aria, insieme a 8,19 tonnellate di benzene, 3.790 tonnellate di anidride solforosa (SO2), 2.430 tonnellate di diossido di azoto (NO2) e tante altre amene sostanze (dati Registro europeo delle emissioniEuropean Pollutant Release and Transfer Register, E-PRTR).
A Sarroch vi sono alterazioni danni al d.n.a. infantile e abnormi casi di leucemia (+ 30% rispetto alla media della Sardegna). E un diffuso, religioso, silenzio in proposito.
Quando il dio Petrolio si altera, gli operai di Sarrok accorrono dal sacerdote-sciamano perché interceda al cospetto del dio.
Quanta ragione aveva Francesco Masala…..

Gruppo d’Intervento Giuridico onlus

P.S.    Noi non siamo stati, non siamo e non saremo mai silenziosi.    Abbiamo in proposito coinvolto (23 febbraio 2013) tutte le amministrazioni pubbliche competenti, interessando contemporaneamente la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari. E continuiamo, con i mezzi a disposizione a fare informazione. Forse, prima o poi, vedranno il dio Petrolio per quel che è, nudo.




da L’Unione Sarda19 maggio 2015
A Sarroch l’aria è irrespirabile. (Ivan Murgana)
I disagi maggiori si registrano durante la notte: è allora che la puzza di gas proveniente dalla raffineria rende l’aria irrespirabile e costringe i cittadini a tenere ben chiuse le finestre. La triste situazione a Sarroch va avanti da una settimana, ma negli ultimi mesi le volte in cui l’aria è diventata nauseabonda non si contano neppure.
INCONVENIENTI. A patire le conseguenze sono soprattutto i residenti della zona più bassa del paese, dove sono molti i cittadini che da giorni lamentano un odore nauseabondo. Per affrontare la questione ieri mattina i vertici dell’associazione ambientale Aria Noa si sono recati in Municipio dove hanno incontrato il sindaco e l’assessore all’Ambiente. Un incontro dove sono emerse tutte le criticità registrate negli ultimi mesi. Il sindaco, Salvatore Mattana, nei giorni scorsi ha inviato alla Saras una nota di contestazione con la richiesta di effettuare tutte le verifiche per giungere alla radice del problema.
IL SINDACO. «Le centraline di rilevamento non hanno registrato un aumento delle sostanze inquinanti, tuttavia chiediamo alla Saras una gestione più accurata degli impianti, delle vasche e dei serbatoi», dice Mattana. «Nel corso della prossima riunione della Commissione ambiente discuteremo con i tecnici Saras di queste criticità e della necessità di avere una migliore sicurezza». L’assessore all’Ambiente, Manuela Melis, ieri ha effettuato dei sopralluoghi in varie zone del paese per controllare la qualità dell’aria. La situazione, rispetto ai miasmi dei giorni scorsi, sembrerebbe tornata alla normalità. «Torce, serbatoi, vasche e impianti: diciamo che all’interno della raffineria i problemi riguardano diversi aspetti delle procedure gestionali della raffineria – dice Melis – , è evidente che occorrano dei cambiamenti per non andare più incontro a situazioni come quelle verificatesi nell’ultima settimana. I cittadini ci hanno segnalato problemi analoghi alla fine dello scorso anno e all’inizio di questo: vogliamo che si trovi una soluzione duratura». I vertici dell’azienda dei Moratti a breve parteciperanno a un incontro dove verranno comunicati i dati ambientali relativi all’ultimo anno: nell’occasione si affronteranno anche i disagi emersi negli ultimi mesi.
LA SITUAZIONE. Parlare di ambiente a Sarroch non è mai stato facile: la posizione di chi chiede una maggiore rispetto dell’ambiente e più attenzione nei confronti della salute dei cittadini, troppo spesso si è contrapposta a quella di chi rivendica il diritto al lavoro. Come se le due battaglie non avessero una matrice comune, il benessere di chi vive all’ombra delle ciminiere da cinquant’anni. «Vent’anni fa parlare di rispetto dell’ambiente era impensabile», racconta Gabriella Orrù, consigliere comunale di minoranza, «oggi sempre più persone sono convinte del fatto che pretendere un abbattimento delle emissioni non significa volere la chiusura della raffineria. I cittadini dovrebbero combattere al fianco delle istituzioni: solo così la situazione generale dell’ambiente a Sarroch potrà cambiare».
CENTRALINE. La Sarlux, in una nota, ha ricostruito l’accaduto. «Appena ricevuta la sollecitazione da parte dell’amministrazione, abbiamo inviato sul campo tecnici con appositi strumenti per verificare eventuali anomalie, alla presenza di un rappresentante del Comune. Tali misuratori, sistemati nei punti da lui segnalati, non hanno fatto emergere alcuna alterazione della qualità dell’aria. Prima ancora, si è proceduto ad un immediato controllo interno sugli impianti, ma non sono stati trovati riscontri oggettivi, come confermato dalla rete di centraline Arpas che registra valori entro la norma. Tuttavia, la direzione dell’impianto ha attivato una task force per monitorare il fenomeno, di cui renderà conto al Comune».



L’ultima volta accadde a dicembre.
Così irrespirabile da obbligare le persone a fare compere coprendosi la bocca con una sciarpa e a tornare a casa il più in fretta possibile. Era un mercoledì di dicembre, l’ultima volta che a Sarroch si è dovuto fare i conti con i miasmi provenienti dallo stabilimento della Saras. Emissioni tanto forti da far lacrimare gli occhi alle persone, costringendone alcune, colpite da nausea, mal di testa e mal di gola a ricorrere alle cure di un medico. L’aria, ammorbata da una puzza insopportabile di gasolio, aveva raggiunto l’intera parte bassa del paese. Era giorno di mercato a Sarroch, e nella piazza di via Al Mare, dove i serbatoi della Saras sono così vicini quasi da poterli toccare, per i proprietari delle bancarelle di frutta e verdura, quanto per i loro clienti, l’aria era stata irrespirabile per buona parte della mattina. Proprio come accaduto in questi giorni, anche allora le centraline di rilevamento delle emissioni inquinanti non avevano registrato aumenti significativi dei valori. Per la Sarlux l’odore percepito era stato provocato dalla movimentazione di prodotto da un impianto a un serbatoio, che aveva causato emissioni volatili di olio combustibile, ma nessuno sversamento di idrocarburi. A complicare le cose ci aveva pensato il vento di maestrale, che si sa, quando soffia da queste parti non porta mai nulla di buono. Un pensiero, nelle menti degli abitanti di Sarroch, che è ormai un timore ormai atavico e che periodicamente si ripropone.

L’associazione in Municipio L’appello di Aria Noa «Nessuna polemica ma ora si cambi».
«Nell’ultima settimana la puzza di gas è diventata insopportabile: ogni sera dopo le 21 in paese l’aria si fa pesante. È evidente che all’interno dello stabilimento della Saras qualcosa non sta andando per il verso giusto». Teresa Perra, presidente dell’associazione ambientale Aria Noa, punta il dito sui disagi che patiscono gli abitanti di Sarroch. Ieri mattina ha partecipato a un incontro in Municipio per fare da portavoce ai cittadini stanchi di questa cappa maleodorante. «Nell’incontro con il Comune siamo giunti alla conclusione che occorre convocare al più presto un tavolo di confronto con i tecnici della raffineria per trovare una soluzione a questo problema – spiega -: non si può pensare di poter andare avanti sopportando questi disagi». Le esalazioni maleodoranti provenienti dallo stabilimento della Saras, complici anche le alte temperature fuori stagione dei giorni scorsi, hanno acuito i disagi patiti dai cittadini. «Mi chiedo cosa accadrà quando arriverà l’estate – dice Perra -, ci auguriamo le persone non siano costrette a tenere ben chiuse le finestre per impedire alla puzza di entrare in casa. Non stiamo cercando lo scontro con la Saras, ma un dialogo proficuo per trovare soluzioni a questo disagio: siamo convinti che i problemi di carattere ambientale e di salute dei cittadini si possano risolvere prevenendo i disservizi all’interno dello stabilimento». (i. m.)


Petrini (Slow Food): «Expo è un circo Barnum senza contenuti»

Car­lin Petrini, fon­da­tore di Slow Food è a Expo, nel padi­glione della sua orga­niz­za­zione con Jac­ques Her­zog, l’architetto che l’ha pro­get­tato. Entrambi non rispar­miano cri­ti­che all’Esposizione, sia per i con­te­nuti che per alcune scelte archi­tet­to­ni­che, diverse dal pro­getto ori­gi­na­rio di orti glo­bali al quale ave­vano lavorato.
«Circo Bar­num» è la defi­ni­zione di Petrini per una Expo «che non può ridursi solo in una fan­ta­sma­go­rica, straor­di­na­ria impresa este­tica ma deve avere con­te­nuti». E l’idea ori­gi­nale è stata «ridotta con cat­tivo gusto, facendo inten­dere che non aveva appeal per atti­rare le per­sone: hanno scelto un’ipotesi diversa, hanno perso grande oppor­tu­nità di fare cul­tura e di tra­smet­terla», è l’attacco di Petrini, men­tre in prima fila arriva il com­mis­sa­rio unico di Expo Giu­seppe Sala.
Cri­ti­che arri­vano anche alle scelte di alcuni paesi («non si può osten­tare opu­lenza in un mondo in cui si muore di fame»), men­tre il padi­glione Slow Food ha scelto uno stile quasi mona­stico, con moduli di legno che potranno essere smon­tati e rimon­tati nelle scuole lom­barde o in Africa, come aule o come capanni per gli attrezzi.
La pole­mica di Petrini non rispar­mia McDonald’s («Noi non siamo la loro com­pen­sa­zione»), ma l’occasione è anche quella di lan­ciare l’edizione di Terra Madre che ci sarà ad otto­bre e por­terà a Milano cen­ti­naia di gio­vani con­ta­dini da tutto il mondo. Per que­sto Slow Food lan­cia una rac­colta fondi e invita i mila­nesi ad acco­gliere i con­ta­dini nelle loro case. E sulle deva­sta­zioni del Primo mag­gio, Petrini sot­to­li­nea che dopo le distru­zioni «sta­volta arri­ve­ranno i gio­vani con­ta­dini a costruire».

martedì 19 maggio 2015

Pessime notizie per le Foreste tropicali

La distruzione del manto forestale nella Nuova Guinea occidentale, controllata dall’Indonesia, prosegue incessante per ampliare le piantagioni di Palma da olio.   L’olio di palma è ormai un vero e proprio affare e le complicità del governo indonesiano con le società che praticano la deforestazione più selvaggia è palese. Il lucro è il loro filo conduttore.
Che la produzione di energia da biomasse e i biocarburanti non fossero esenti da gravi problematiche ambientali è ormai un dato acquisito, l’E.P.A. (United States Environmental Protection Agency) ha depennato il biodiesel realizzato da olio di palma dall’elenco deicombustibili “ecologici” secondo gli standard statunitensi.
In più distrugge le foreste tropicali.
Eppure si continua a venderlo come combustibile ecologico ed ecosolidale.
Anche in Brasile avanza la deforestazione.
Dopo l’approvazione definitiva (2012) della modifica del codice forestale brasiliano, oggi laforesta pluviale dell’Amazzonia è ancora più a rischio.
I dati dei tagli forestali segnano un + 63% nel 2014 rispetto al 2013. Prendendo in considerazione i tagli selettivi e gli incendi, secondo l’associazione ambientalista Imazon, l’aumento sarebbe addirittura del 161%.
Drammatico quanto reso noto in occasione della recente Giornata internazionale delle Foreste (21 marzo 2015).    Secondo dati elaborati dalla F.A.O. (marzo 2014), la superficie forestale mondiale è diminuita di circa 5,3 milioni di ettari l’anno nel periodo 1990-2010, pari a una perdita netta come quasi 4 volte le dimensioni di un paese come l’Italia. I risultati, aggiornati con il sondaggio globale di rilevamento a distanza, mostrano che nel 2010 la superficie forestale complessiva era di 3.890 milioni di ettari, il 30% della superficie totale della Terra.
Nel mondo la riduzione del suolo occupato da foreste (1990-2010), causata principalmente dalle attività umane (in primo luogo dalla deforestazione), è stata di 15,5 milioni di ettari l’anno.  Questo calo è stato parzialmente compensato dagli aumenti di superficie forestale, attraverso il rimboschimento e l’espansione naturale delle foreste, di 10,2 milioni di ettari l’anno.
Ci sono state notevoli differenze a livello regionale nelle perdite e negli aumenti di superficie forestale: “L’area di foreste tropicali è diminuita in Sud-America, in Africa e in Asia – con la più grande perdita in termini assoluti nelle aree tropicali del Sud-America – seguita dall’Africa tropicale, mentre aumenti di superficie forestale sono stati riscontrati in Asia subtropicale e nelle Aree a clima temperato. Le foreste nel mondo sono distribuite in modo non uniforme, con poco meno di metà nelle zone tropicali (45% della superficie forestale totale), circa un terzo nelle zone boreali (31%) e aree di minore entità nelle zone temperate (16%) e subtropicali (8%)”.
E’ ora di difendere strenuamente le nostre foreste e di incrementarne la superficie, ne va del nostro futuro.
Gruppo d’Intervento Giuridico onlus
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dalla Newsletter di Salva le Foreste, 6 maggio 2015
Papua: l’olio di palma si mangia tutto.
(Mongabay.com) C’è un detto nel settore indonesiano dell’olio di palma: Sumatra era ieri, Kalimantan è oggi, e Papua è domani. Questo domani potrebbe anche essere già arrivato. Un nuovo rapporto mette in luce la rapida espansione delle piantagioni di palma da olio nell’area della Nuova Guinea controllata dall’Indonesia.
Il rapporto, pubblicato da una coalizione di foto associazioni, tra cui Pusaka e Awas MIFEE. fa i nomi delle imprese, uno per uno. Alcuni sono grandi conglomerati. Altri appaiono imprese di facciata, alcune perfino con indirizzo falso, create all’occasione per nascondere altri attori.  Sul progetto regna un’aura di segretezza. Gran parte delle imprese coinvolte, rifiuta di rivelare qualsivoglia informazione sui progetti, e i funzionari governativi preposti al progetto sembrano altrettanto riluttanti dal rilasciare informazioni. Informazioni sono per giunte dalle associazioni locali, dalle chiese e dalle comunità indigene. Il risultato è un Atlante della palma da olio in Papua occidentale, che disegna un quadro inquietante della deforestazione in arrivo.
Un quadro quasi sconosciuto. “Con la scusa del conflitto col movimento indipendentista, il governo indonesiano ha reso quasi impossibile agli osservatori internazionali viaggiare in Papua occidentale, e questo ha fatto sì che non l’opinione pubblica internazionale non è informata delle gravi minacce per l’ambiente” spiega il comunicato delle associazioni.
Mappe dettagliate organizzate per distretti, mostrano l’avanzata delle piantagioni di palma da olio nella regione. Nel 2005 c’erano appena cinque piantagioni operative, nel 2015 sono quadruplicate, e altre 20 hanno quasi completato la pratica di autorizzazione. Ma molte altri progetti hanno avviato le pratiche, e in pochi mesi potrebbe iniziare ad essere operativo. “Se verranno create tutte queste piantagioni, la palma da olio si estenderà su di 2,6 milioni di ettari,  la maggior parte dei quali è ora coperta foresta tropicale”, spiegano le associazioni.
I conglomerati con imprese della regione sono guidati da alcuni degli uomini più ricchi dell’Indonesia: Bachtiar Karim (Musim Mas), Sukanto Tanoto (Reale Golden Eagle), Eka Tjipta Widjaja (Sinar Mas), Anthony Salim (Salim Group) e Peter Sondakh (Rajawali).
Altri importanti gruppi con sede in Malesia, Hong Kong, Sri Lanka: George Tahija, Austindo Nusantara Jaya, Medco di Arifin Pangioro, Lion, Noble e Carson Cumberbatch.

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27 aprile 2015
Brasile, torna la deforestazione.
E ‘ufficiale: secondo fonti governative, la deforestazione in Amazzonia è in tornata ad aumentare, con un sensibile incremento rispetto all’anno scorso. L’Istituto per la ricerca spaziale (INPE) ha pubblicato i nuovi dati sulla base di analisi satellitare, secondo cui la deforestazione è stata il 63 per cento più elevata nel 2014, rispetto all’anno precedente. Secondo l’organizzazione ambientalista Imazon, la distruzione delle foreste è stata molto più ampia se si prende in considerazione il taglio selettivo e gli effetti degli incendi: 161 per cento in più rispetto all’anno precedente.
A febbraio, il governo brasiliano ha mosso uno dei suoi maggiori passi nella lotta contro la deforestazione illegale: l’agenzia di applicazione ambientale IBAMA ha arrestato Ezequiel Antônio Castanha, il capo della banda che con il disboscamento illegale ha saccheggiato 15.000 ettari lungo l’autostrada BR-163 nello Stato del Pará. In dieci anni il governo ha ben lavorato per frenare il disboscamento illegale, ma la deforestazione non si è fermata.
In realtà, la deforestazione è sempre più un “fenomeno legale”. Il nuovo codice forestale, approvato dopo una campagna lunga dalla lobby agroalimentare, ora permette al contadino di cancellare e convertire in piantagione un più alto tasso di foresta. Il boom delle esportazioni reso possibile dal basso corso della valuta brasiliana, offre un ulteriore incentivo per cancellare le foreste per espandere le piantagioni, anche perché il taglio anche illegale per l’agricoltura non è più gravemente sanzionato. La corsa per la produzione di colture per l’esportazione sta ora restringendo la foresta amazzonica.
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sabato 16 maggio 2015

Le bollicine nutrono il pianeta? – intervista a Francesco Gesualdi (a cura di Carlo Cefaloni)

Come dichiara il sito ufficiale diExpo 2015 Milano, Coca Cola è l’Offical soft drink partner dell’esposizione universale «in virtù del suo impegno sul fronte dell’innovazione e della crescita sostenibile capace di generare ricchezza per la comunità, tutelando le risorse utilizzate e incoraggiando consumi e stili di vita equilibrati». Abbiamo chiesto un parere a Francesco Gesualdi, fondatore del Centro nuovo modello di sviluppo di Pisa, padre del consumo critico e del commercio solidale in Italia, attinge il suo pensiero dalla grande esperienza della Scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani.
È contestata la presenza della Coca Cola all’Expo sull’alimentazione…
Con Cola Cola ci sono quattro ordini di problemi. Il primo: commercializza un prodotto inutile a forte impatto ambientate. Il secondo: produce un prodotto che pone seri rischi per la salute. ll terzo: come tutte le imprese è interessata solo al profitto e pone attenzione ai problemi sociali e ambientali tanto quanto basta per costruirsi una buona immagine nei confronti dei consumatori. Il quarto: usa il suo potere economico per condizionare la politica, svuotando di fatto la democrazia. Durante le elezioni presidenziali degli Stati Uniti, nel 2014, Coca Cola ha speso in sovvenzioni ai candidati quasi un milione di dollari. Coca Cola solo nel 2012 ha realizzato nove miliardi di profitti netti da un fatturato di 49 miliardi di dollari ossia il 18 per cento. A chi sono stati sottratti quei soldi finiti nelle tasche di Warrent Buffett e gli altri azionisti di Coca Cola? Questo è quello che ci interessa sapere, non il numero di ambulanze che Coca Cola ha donato alle varie organizzazioni di beneficienza.

Quali sono gli attuali punti critici di questa multinazionale?
Coca-Cola spende oltre 3 miliardi di dollari in pubblicità. Il che le assicura non solo visibilità, ma anche un grande muro di omertà che la mette al riparo da qualsiasi notizia negativa. Inutile sorprendersi se certe informazioni non circolano. Ma è un fatto che le sue bevande zuccherate contribuiscono grandemente all’obesità e incidono sui bilanci della sanità pubblica che deve spendere miliardi per curare le malattie connesse a un’alimentazione sbagliata. Le bottiglie e le lattine che Coca Cola mette in circolazione provocano alla collettività problemi e costi di smaltimento molto seri. E potremmo continuare con un lunghissimo elenco.
In quanto multinazionale che opera a livello globale, Coca Cola può insediarsidove le regole ambientali e sociali sono più permissive, riuscendo a violare ambiente e diritti in maniera legale. I contenziosi con le popolazioni locali sull’uso e l’inquinamento delle acque continuano come mostra l’India e il Guatemala. Parimenti, in molti paesi del mondo Coca Cola continua ad essere criticata per la politica antisindacale.
Che senso può avere il boicottaggio?
Don Milani ci ha insegnato che il potere sta in piedi attraverso il consenso di tutti. Per cui ogni scelta di non collaborazione contribuisce ad indebolirlo. Quanto più ampio è il ventaglio di cittadini che sa dire no e quanto più ampi sono gli aspetti su cui sappiamo dire no, tanto più alte le probabilità di fare cambiare le imprese e l’intero sistema.
Di fronte alla parzialità delle nostre azioni non bisogna reagire riducendo il nostro spazio di impegno, ma ampliandolo. Per questo è importante riappropriarci totalmente del nostro ruolo di cittadini sovrani che non si limitano a consumare in maniera responsabile, ma occupano tutti gli altri spazi a nostra disposizione: la denuncia, il voto, la manifestazione, lo sciopero, la proposta. Solo usando contemporaneamente tutti questi strumenti possiamo sperare di ottenere il cambiamento.

Come si spiega l’incidenza sull’immaginario collettivo della Coca Cola pur conoscendo le scelte non sempre etiche dell’azienda?
Le ragioni di tanta contraddizione vanno ricercati su molti piani. Due fenomeni probabilmente incidono più di altri. Il primo è il non sentire su se stessi la responsabilità di ciò che succede, semplicemente perché un certo risultato è frutto della sommatoria dei comportamenti collettivi. In altre parole non hanno accolto la sollecitazione di don Milani che ci invita a“sentirci tutti responsabili di tutto”. Il secondo è che non siamo educati a considerare la coerenza come un valore politico. Non abbiamo ancora capito che la società è frutto di regole e comportamenti e che il cambiamento avverrà solo se sapremo agire sulle une e sugli altri.

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venerdì 15 maggio 2015

Sobuy Khalifa sa nuotare

Per Salvini invece la conferma che i clandestini ci rubano tutto, anche i suicidi.
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Ha visto una donna in balia delle acque del Tevere.
32enne, cittadino del Bangladesh, si è tuffato riuscendo a raggiungerla e poi, con l’aiuto degli agenti della Polizia di Stato intervenuti, a trarla in salvo.
E’ accaduto nel tardo pomeriggio di ieri sotto Ponte Sublicio, quando una 55enne si è gettata nel Tevere.
La scena è stata notata dal 32enne che non ha esitato a scendere fino alla banchina per poi andare in acqua cercando di raggiungere la donna.
A “recupero” effettuato, l’uomo – con la donna in salvo tra le sue braccia – è riuscito a riavvicinarsi alla riva del fiume.
La donna è stata trasportata direttamente al pronto soccorso del Fatebenefratelli dal gommone dei Vigili del Fuoco.
Il soccorritore è stato invece aiutato dagli agenti del Commissariato Celio, i quali, dopo averlo letteralmente tirato fuori dal Tevere, lo hanno accompagnato negli uffici di Polizia.
In Commissariato l’uomo è stato rifocillato e fatto riposare; completamente “zuppo”, gli sono anche stati forniti abiti nuovi acquistati dagli stessi agenti.
All’uomo – privo di regolari documenti – grazie al suo a dir poco encomiabile e meritorio comportamento, è stato rilasciato un permesso di soggiorno per motivi umanitari.
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mercoledì 13 maggio 2015

Il Lazzaretto di Niamey - Mauro Armanino

Era un enorme campo profughi per i Tuareg colpiti dalla siccità, poi, negli anni Settanta, la cavalcata espansiva di Niamey l’ha inglobato per farne un’altra periferia povera. Mauro Armanino, missionario italiano emigrato sulle rive del Niger per prendersi cura dei migranti, ci racconta Lazzareto (Lazaret), il quartiere della capitale dove si aspettava con ansia l’arrivo di Ebola. Per molte agenzie umanitarie e per il potere politico corrotto le epidemie incontrollate sono una vera manna ma il più spettacolare dei virus ha snobbato la popolazione nigerina e s’è arrestato alla frontiera col Mali. In sostituzione, è arrivata la meningite, la cui presenza era da tempo nota a tutti, ma proprio a tutti, tranne che alle vigili agenzie. Così i vaccini non ci sono, qualcuno però giura che siano in viaggio…

L’unica ambulanza funzionante passa di giorno e di notte. Sembrano molte ma si tratta di un’illusione acustica. La sirena appare da lontano e pochi automobilisti la prendono sul serio. Avranno i loro motivi per non spostarsi di un passo. Avanti e indietro dal Lazzareto di Niamey che si trova sulla destra della strada di Ouallam. Oltre l’ambulanza sono i genitori che portano in braccio o con altri mezzi i figli contaminati dalla meningite. Ogni giorno racconta i propri morti tra le tende di isolamento che aiutano a propagare la malattia. La zona del Sahel è da tempo un’area propizia allo sviluppo della malattia. La polvere e il vento caldo facilitano il bacino di utenza del morbo. Le zone a rischio servono per gli studi di geopolitica. L’organizzazione Mondiale della Sanità abita un bel palazzo sulla centrale arteria Mali Bero. L’OIM, l’Ufficio delle Migrazioni Internazionali è poco lontano. La morte è tra tutte la migrazione meno studiata.
Le Organizzazioni Internazionali, in combutta con le Complici Autorità Locali,sono come l’uomo ricco della nota parabola. Vestono di porpora e di cartellini plastificati di riconoscimento. Ogni giorno fanno splendidi banchetti nei ristoranti raccomandati dalle agenzie di notazione. I mendicanti, di nome Lazzaro, stanno alla porta ben custodita da membri della ditta di sicurezza più performante. Le piaghe sono invisibili e solo in alcune circostanze vengono esibite. Vorrebbero sfamarsi di quello che avanza dalle Istituzioni ma nessuno li prende sul serio. I pochi cani da guardia si trovano dietro le mura di cinta delle ville. Gli altri si nascondono per non essere accusati di mendicità dalle ordinanze municipali che nessuno fa applicare. Un giorno di aprile o d’inizio maggio i Lazzaro sparirono per sempre dalle soglie dei ristoranti. I vaccini cominciarono ad arrivare e pochi raccomandati con qualche bambino poterono usufruirne. I ricchi non se ne erano accorti.
Lazzareto era il nome del campo profughi che raccolse migliaia di Tuareg durante una lunga e mortale siccità. La gestione dello stesso era stata affidata ad agenzie religiose e umanitarie. Col tempo il luogo si era adattato all’estendersi delle periferie nella capitale del Paese. L’arrivo di Ebola aveva costituito una rinnovata identità al campo. Per grazia ricevuta questa epidemia si era fermata alla frontiera col vicino Mali. Imponderabili giochi del destino o distrazione divina, fatto sta che il Niger era stato risparmiato dall’Ebola. C’era reticenza a dare la mano alle donne ma solo per il tipico pudore della società nigerina. Gli inviti a lavarsi spesso le mani erano disattesi per mancanza d’acqua potabile. Comunque l’epidemia aveva risparmiato i Lazzari. Ma il Lazzareto era stato adibito nel caso fosse necessario. Ed è a questo punto che la meningite aveva saputo colmare il vuoto creatosi tra le tende. I Medici Senza Frontiera stavano anch’essi alla porta.
Lazzaro è colui che dio assiste quando può. Spesso le Agenzie Umanitarie lo precedono e allora sono guai seri. Finche arriva il Governo centrale della Sanità che si potrebbe paragonare per difetto a una ciurma di pirati. Assaltano laddove ci sono epidemie e programmi globali alla Bill Gates con Melinda da soprammobile. Ci sono piani per tutte le malattie trasmissibili a parte la povertà che invece si custodisce e tramanda per generazioni. Se poi nascono epidemie incontrollate è tanta manna per gli agenti che di essa si arricchiscono. Qualcuno, di rado, finisce a Kollo, la prigione ‘politica’ di Niamey. In genere non dura molto: la giustizia si stanca prima degli imputati. Poi tutto torna come prima e i pirati trovano altri mezzi di abbordaggio. Della meningite si sapeva. Persino i Lazzaro del circondario lo sospettavano da tempo. Le Agenzie no. I vaccini non ci sono, o se c’erano dormivano in alcune farmacie dai nomi provvidenziali che illuminano la notte.
Dosi a prezzi stracciati circolano nell’immaginario collettivo. Altre vengono spacciate al mercato nero o vendute in chioschi improvvisati con iniezione compresa. Le mascherine protettive sono facoltative e a Niamey le usano i motocilisti per non prendere il raffreddore. C’è chi giura che adesso i vaccini sono arrivati o sono in viaggio. Anche loro sono tra i migranti da controllare.
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lunedì 11 maggio 2015

Cambiare il mondo da un agrumeto - Roberta Perrone

Antonio Cangialosi ho ventotto anni ed è un contadino. Da alcuni anni cura un agrumeto di circa tre ettari e un uliveto altrettanto grande. La sua piccola azienda familiare si trova nella campagna intorno a Palermo e produce arance, mandarini, mandaranci, limoni, cedri e un ottimo olio extra vergine d’oliva. Da un paio d’anni ha inserito tra i suoi prodotti marmellate di arance, miele di zagara e liquori di agrumi. La sua esperienza, come molte altre che non trovano spazio all’Expo, dimostra almeno un paio di cose: è possibile restituire dignità al mestiere del contadino, è possibile rifiutare la dittatura dell’agricoltura industriale. Abbiamo incontrato Antonio per ragionare dei temi della terra.
Antonio, come e perché ha scelto di vivere coltivando la terra?
L’azienda agricola, che gestisco insieme a mio fratello, dal punto di vista formale è nata cinque anni fa, ma in realtà calpestiamo quel suolo praticamente da sempre. Quella terra è un dono che ci è stato ereditato. Sin da piccoli alternavamo piacevoli ore di lavoro in campagna con impegni di studio. Ci siamo ritrovati grandi e col desiderio maturato negli anni di fare del nostro hobby un vero e proprio mestiere.
Nel 2010 abbiamo cercato di mettere in piedi una vera attività agricola di collina a conduzione familiare. Principalmente siamo io e mio fratello che ci lavoriamo, ma in alcuni momenti anche mio padre, parenti e amici. Ci danno una mano soprattutto nella fase della raccolta. Questa attività è nata pezzo dopo pezzo attraverso piccoli tentativi, esperimenti, grazie soprattutto alla curiosità di provare a capire come si può vivere coltivando la terra. Non nego che la prima fase ha riservato alcune difficoltà: passare dai libri alla terra, inghippi burocratici, difficoltà nell’avvicinare la gente al buon cibo… In questo momento, nonostante le difficoltà siano sempre presenti, possiamo dire che stiamo riuscendo nei nostri intenti ed è pure divertente. È un lavoro duro, si torna a casa stanchi e si dedicano altre ore alla vendita a km0 dei prodotti nel nostro piccolo punto vendita in paese. Altre ore vengono destinate alla comunicazione, cioè e-mail, social network, pubblicità, etc. Altre vengono impiegate per la sistemazione dei pacchi da spedire, dando così la possibilità a chiunque di acquistare prodotti genuini, dall’albero alla tavola. Quindi il lavoro c’è ed è anche tanto, ma cerco di ridurre il più possibile il livello di alienazione. E posso dire che è una cosa che mi appaga. È un processo in continuo divenire.
Perchè è importante tornare alla terra?
Noto che dalle nostre parti, da alcuni anni, c’è per fortuna una piccola realtà di giovani che vorrebbe impegnarsi in questo settore e che sembra voglia espandersi sempre più. Si sta riscoprendo il valore della terra. Di certo è una realtà che stenta a decollare, ma comunque è già importante che si stia facendo spazio nel sociale. Il ritorno alla terra non è da sottovalutare, anzi. L’attività agricola può rappresentare un modello alternativo. La terra è una risorsa importante perchè è lei che ricuce i rapporti tra territorio e comunità, le
relazioni, le conoscenze, il recupero di saperi, le tradizioni. Oggi la gente inizia a pensare che la strada sia in progetti come il nostro. Ciò ci inorgoglisce.

Perchè occuparsi della difesa del suolo è divenuta oggi una priorità?
Oggi le policolture sono minacciate dalle monocolture industriali. Le colture intensive avvengono a ritmi spaventosi. La negatività delle colture intensive sta principalmente nel trarre profitto ad ogni costo. Non a caso, pur di lucrare, le grandi aziende tendono a sfruttare al massimo il suolo, i mezzi, il personale e tutto ciò di cui necessita una coltivazione intensiva. Le conseguenze sono note: cattive paghe, usi sproporzionati di carburante, uso massivo di pesticidi, anticrittogamici, fitofarmaci, insetticidi. È la chimica che fa il gioco purtroppo, col suo malefico ausilio si può annualmente ottenere una produzione standard. Ma sopperire le mancanze con la chimica porterà la natura a depauperarsi. Infatti, riproponendo questi metodi anno dopo anno il suolo, le piante e i prodotti stessi verranno denaturati. Perderanno le loro fisiologiche proprietà. Isde Italia, ad esempio, ha reso pubblica la sua posizione sui rischi ambientali e sanitari generati dall’uso di pesticidi. Nel documento vengono presentate numerose informazioni che evidenziano le criticità delle pratiche agroindustriali dannose per la salute dell’uomo, degli animali e degli ecosistemi. Mi riferisco alla contaminazione chimica del suolo, dell’acqua, dell’aria e degli alimenti. È un documento che a mio avviso dovrebbero leggere tutti. Essendo stato uno scout non posso dimenticare le parole del fondatore Baden Powell: “Lascia il mondo un po’ migliore di come l’hai trovato“. La difesa del suolo è una priorità perchè se tratti bene la terra lei ricambierà nel migliore dei modi. Coltivare con metodi biologici, prendersi cura della salute del terreno è un po’ come difendere l’equilibrio del cosmo.
Come fate quindi a difendere i vostri raccolti da possibili attacchi?
Gli agrumi sono dei frutti resistenti. La buccia, spessa e grezza, consente di proteggere al meglio il frutto dagli attacchi. Di conseguenza il produttore, se vuole, non è costretto a far uso della chimica. Capita però che l’agrumeto venga infestato dalla presenza di un numero massiccio di afidi e cocciniglie, insetti visibili anche ad occhio nudo che si raggruppano solitamente sulla pagina inferiore delle giovani foglie. Succhiano la linfa delle piante provocandone un generale deperimento. Per affrontare questo problema utilizziamo un metodo naturale, l’olio extra vergine d’oliva. L’olio, distribuito nelle foglie, riesce a soffocare gli insetti sopprimendoli. Per altri casi utilizziamo anche rame e zolfo, fungicidi naturali che,
se utilizzati in giuste dosi, sono consentiti in agricoltura biologica.
Quale potrebbe essere a tuo avviso un sistema di produzione e di distribuzione ideale?
Mi piace pensare che un giorno si potrà tornare ad una produzione e ad una distribuzione locale, il famoso km0. E mi piace pensare che un giorno le produzioni industriali cesseranno di esistere. Una piccola azienda non ti obbliga ai ritmi frenetici di cui necessita una mega azienda. Si sa, le grandi aziende sono spesso strozzate dai costi e da un’organizzazione troppo macchinosa, con tempi e ritmi rigidissimi dettati dalle dure leggi di mercato, per non parlare dell’uso sproporzionato di concimi chimici. Invece, tante piccole aziende possono agire nel rispetto della terra e dell’uomo con giuste ore di lavoro, adeguate tecniche di potatura, di concimazione, di irrigazione e di raccolta.
Sarebbe bello vedere un giorno il contadino entrare nuovamente in città attraverso i mercati di vendita diretta, mettendo così in evidenza la trasparenza del prezzo, il valore del lavoro e la qualità del prodotto. Quella della vendita diretta, negli spacci, nei mercatini, attraverso i Gas, non è solo un’alternativa critica alla grande distribuzione, ma resta prima di tutto un modo diverso per creare e difendere le relazioni tra persone. Bisogna ripensare l’agricoltura e il nostro rapporto con il cibo. Le dinamiche commerciali odierne, ahimè, obbligano ad attivare anche dei metodi di distribuzione ad ampio raggio. Noi ad esempio diamo l’opportunità al consumatore di acquistare i nostri prodotti da ogni parte d’Italia e farseli recapitare nelle proprie case in breve tempo. Unici aspetti positivi: diamo la possibilità a tutti di mangiare prodotti sani e sicuri; in tal modo eliminiamo i vari passaggi degli intermediari, i quali non fanno altro che far lievitare i prezzi e la tempestica tra raccolta e consumazione.
È possibile secondo te un’agricoltura differente che preservi l’agricoltura tradizionale, l’uso delle sementi antiche e che rispetti i ritmi naturali considerando l’aumento della richiesta di cibo?
Per quanto riguarda la questione dei semi posso parlarti della mia esperienza. Parte dell’azienda è destinata a un piccolo orto per il fabbisogno familiare. Grazie alla passione per la campagna di mio nonno e di mio padre, oggi, io e mio fratello,disponiamo di sementi antiche di varietà non più esistenti in commercio: pomodoro, zucchina siciliana, fava, cetriolo, cipolla, aglio. Ho ereditato una grande ricchezza. Purtroppo alcuni semi di altri ortaggi sono andati persi nel tempo. Ciò ci obbliga ad acquistare sementi o piantine direttamente dai vivaisti che commercializzano semi ibridi. Qui si apre un capitolo immenso sull’origine dei semi, le modifiche apportate, le certificazioni, i brevetti, le multinazionali. Argomenti che non possono essere riassunti o trattati superficialmente. Aggiungo solo che oggi i circuiti di scambio dei semi hanno un’importanza fondamentale, perchè offrono l’opportunità di scambiare varietà di semi poco conosciute. I semi sono un patrimonio dell’umanità. Difendere i semi significa difendere la biodiversità, ecco perchè dobbiamo conservarli con cura e scambiarli. Mi piace pensare che in futuro di circuiti di scambio potranno essercene di più, distribuiti in tutto il territorio nazionale, perchè la libertà di scambiare le sementi antiche è un diritto naturale. La terra ci offre doni che dobbiamo condividere con gli altri.
Ci era stato detto che gli Ogm avrebbero salvato il mondo dalla fame facendo aumentare i raccolti, diminuendo l’uso dei pesticidi, mettendo in circolo piante in grado di resistere alle condizioni climatiche, e invece? Cosa ne pensi dell’inquinamento genetico che ne deriva?
Le promesse fatte sono inganni. Solo e semplicemente inganni. Interessi di multinazionali impavide pronte a tutto pur di lucrare. Quella degli Ogm è una macchina formidabile e in continua espansione che promette di nutrire il pianeta mentre nella realtà riproduce una struttura di spreco e di ingiustizia. Si sa, le multinazionali sono divenute così potenti da condizionare persino le scelte istituzionali, a discapito di piccoli e medi agricoltori, dei cittadini consumatori e persino dell’ambiente. L’uomo è riuscito a brevettare il bene comune più prezioso, il seme. È riuscito a modificarne la genetica, a renderlo proprio al fine di commercializzarlo, mettendo a rischio la fertilità del suolo, della falde idriche, dell’atmosfera e della salute umana. Non si può pensare di modificare la terra all’infinito, scavare montagne in eterno, cementificare tutto. Sulla terra non si può lucrare per sempre. Tutto questo un giorno si rivolterà contro.
Cosa possiamo contribuire per tutelare il futuro del suolo e per limitare il più possibile il collasso ambientale che si è già innescato?
Bisogna credere nella buona agricoltura e cercare di avvicinare quanta più gente possibile al rispetto dell’ambiente. Siete voi consumatori ad avere potere decisionale. Bisognerebbe ridurre o ancor meglio eliminare la cultura dell’usa e getta e del consumo senza qualità e consapevolezza. Quella del consumismo è una logica che si è imposta nel tempo e che ha influenzato negativamente la salute dei consumatori. Ricordiamo sempre che noi siamo quel che mangiamo.

domenica 10 maggio 2015

Clandestino nell'utero-valigia - Daniela Pia

Noi donne sappiamo cosa significa “trasportare” un bambino.
Ce lo portiamo appresso per nove mesi, quando tutto va bene. Lo culliamo nel liquido amniotico, gli parliamo senza proferir parola. Lo accarezziamo attraverso il ventre. Lo partoriamo nel dolore per godere subito dopo della gioia della sua pelle, del vagito, del pugno che stringe il dito e delle labbra che si attaccano al seno.
Sappiamo che ogni distacco è fonte di dolore, ansia e preoccupazione.
Ma, nel nostro mondo fatto di tutele e certezze, il tempo del distacco possiamo gestirlo, sappiamo che nessuno potrà frapporsi, senza fare i conti con la legge, a volte un poco miope, al ricongiungimento di una madre con il proprio figlio. Questo “naturalmente” se sei una madre dell’opulento Occidente industrializzato, membro dunque della “civilissima” Europa, quella trincerata dietro il filo spinato di una linea Maginot tesa a escludere gli ultimi, i fratelli e i figli più bisognosi: quelli che eravamo noi… non molto tempo fa.
Perchè se sei nato dalla parte sbagliata del mondo – quello che fa partorire infinite volte nel dolore, nella fame, nella guerra – il distacco si fa odissea. E il mare non è liquido amniotico ma nemico, una scommessa che sai di poter perdere ma che devi fare se vuoi far sopravvivere i tuoi figli. «Fatti non fummo a viver come bruti, ma seguir virtute e conoscenza» ma quella conoscenza pare perduta nel nostro comodo experire il mondo.
Quando non è il mare, il limbo da attraversare per trovare una parvenza di futuro si fa aria. Cercare di ritrovare una madre attraverso l’aria è un poco più arduo. Il cordone ombelicale si avviluppa e si annoda, persino in un trolley: solo che il neonato è già cresciuto, ha 8 anni ormai, eppure non ha dimenticato la postura fetale. La tiene per ore. Infinite. Il grembo di plastica non lo culla; non è l’ ecografia che lo indaga per tutelarlo, è uno scanner che lo rivela per denunciarlo: clandestino. Bimbo clandestino alla ricerca del suo destino che ha nome di madre. Bizzarro bagaglio in mano a una fanciulla, nipote di Nessuno, 19 anni a sfidare il filo spinato che separa madri e figli.
Sento di non poter contenere questa infamia. Mi arrogo il diritto di donna di appellarmi a tutti i tribunali del mondo perché facciano propria la postura fetale di un figlio che sfida la sorte e sceglie di rattrappirsi in un utero di plastica per ritrovare sua madre.

giovedì 7 maggio 2015

Il lavoro dei bambini tra i coloni d’Israele - Human Rights Watch

Perché darsi tanto da fare per avere un titolo di studio? Finiranno comunque a lavorare nelle colonie agricole isreliane con un salario da fame. Centinaia di bambini palestinesi lavorano in condizioni disastrose durante tutto l’anno. Alcuni raccontano anche di essere svenuti, d’estate, quando la temperatura supera i 40 gradi. Nei periodi di raccolta il numero dei piccoli contadini che si spezzano la schiena aumenta. Il rapporto di Human Rights accusa: quei bambini lasciano la scuola e spesso vanno a fare lavori pericolosi ma Israele fa finta di niente

di Human Rights Watch

In un rapporto presentato a metà aprile Human Rights Watch sostiene che le fattorie delle colonie israeliane in Cisgiordania utilizzano lavoro minorile palestinese per la coltivazione, la raccolta e l’impacchettamento dei prodotti agricoli, molti dei quali esportati. Le fattorie pagano ai bambini bassi salari e li sottomettono a condizioni di lavoro pericolose in violazione degli standard internazionali.
Il rapporto di 74 pagine si chiama “Maturi per gli abusi: il lavoro minorile palestinese nelle colonie agricole israeliane in Cisgiordania” e documenta che bambini, anche di 11 anni, lavorano in alcune fattorie delle colonie, spesso ad alte temperature. I bambini trasportano carichi pesanti, sono esposti a pesticidi pericolosi ed in alcuni casi devono pagarsi i trattamenti medici per ferite o malattie dovute al lavoro.
“Le colonie israeliane stanno traendo profitto dalle violazioni dei diritti contro i bambini palestinesi,” afferma Sarah Leah Whitson, direttrice per il Medio Oriente e il Nord Africa. “I bambini delle comunità impoverite dalle discriminazioni di Israele e dalle politiche di colonizzazione stanno lasciando la scuola e accettando lavori pericolosi perché sentono di non avere alternative, mentre Israele fa finta di niente.”
Human Rights Watch ha intervistato 38 bambini e 12 adulti che lavorano in sette fattorie delle colonie nella zona della valle del Giordano, che rappresenta circa il 30% della Cisgiordania e dove si trovano i maggiori insediamenti agricoli. Le restrizioni discriminatorie israeliane contro l’accesso dei palestinesi alle terre coltivabili e all’acqua in Cisgiordania, soprattutto nella valle del Giordano, un centro tradizionale dell’agricoltura palestinese, costano all’economia palestinese più di 700 milioni di dollari ogni anno, secondo le stime della Banca Mondiale. I livelli di povertà dei palestinesi nella valle del Giordano arrivano al 33,5%, tra i più alti di tutta la Cisgiordania.

Alcuni palestinesi affittano terreni agricoli dai coloni israeliani, ai quali Israele ha affidato le terre dopo essersene illegalmente appropriato portandoli via ai palestinesi. In base alla Quarta Convenzione di Ginevra le politiche israeliane che appoggiano il trasferimento di civili nei Territori Occupati e l’appropriazione da parte di Israele di terra e risorse per le colonie viola gli obblighi di Israele in quanto potenza occupante. Secondo Human Rights Watch, queste violazioni sono aggravate nelle colonie dalle violazioni dei diritti contro i lavoratori palestinesi, compresi i bambini. Israele dovrebbe smantellare le colonie e, nel frattempo, proibire ai coloni di sfruttare i bambini, in ottemperanza agli obblighi di Israele in base ai trattati internazionali sui diritti dei bambini e dei lavoratori.
Quasi tutti i bambini palestinesi intervistati da Human Rights Watch hanno detto di ritenere di non avere alternative se non trovare lavoro nelle fattorie delle colonie per aiutare le loro famiglie. Israele ha destinato l’86% della terra nella valle del Giordano alle colonie e garantisce un accesso molto maggiore all’acqua del bacino idrico della valle per l’industria agricola delle colonie che per i palestinesi che vi vivono. Le colonie agricole israeliane esportano una quantità significativa dei loro prodotti all’estero, compresi Europa e Stati Uniti.
Non sono disponibili statistiche ufficiali, ma i gruppi israeliani e palestinesi per lo sviluppo ed i diritti dei lavoratori stimano che centinaia di bambini lavorino durante l’anno nelle colonie agricole israeliane, e che il loro numero aumenti durante i periodi di raccolta. I bambini intervistati da Human Rights Watch hanno affermato di soffrire di nausea e di capogiri. Alcuni dicono di essere svenuti mentre lavoravano in estate con temperature che spesso superano i 40 gradi all’esterno, e sono persino superiori all’interno delle serre nelle quali molti bambini lavorano. Altri bambini dicono di aver avuto vomito, difficoltà di respirazione, irritazione agli occhi ed eruzioni cutanee dopo aver spruzzato e essere stati esposti ai pesticidi, anche in spazi chiusi. Alcuni si sono lamentati di mal di schiena dopo aver trasportato pesanti casse piene di prodotti o contenitori “a zaino “di pesticidi.
Le leggi del lavoro israeliane vietano ai minori di portare pesi eccessivi, di lavorare ad alte temperature e con pesticidi pericolosi, ma Israele non applica queste leggi per proteggere i bambini palestinesi che lavorano nelle sue colonie. Le autorità israeliane raramente controllano le condizioni di lavoro dei palestinesi nelle colonie agricole israeliane. I ministeri israeliani della Difesa, dell’Economia e del Lavoro dicono tutti che stanno studiando come applicare maggiori protezioni sul lavoro per i palestinesi che lavorano nelle colonie, ma che nel frattempo nessuna autorità ha un mandato preciso per far applicare i regolamenti.

Dei bambini intervistati per il rapporto, 33 hanno lasciato la scuola e stavano lavorando a tempo pieno nelle colonie israeliane. Di questi, 21 hanno abbandonato la scuola prima di compiere i 10 anni dell’educazione primaria, obbligatori sia per le leggi palestinesi che per quelle israeliane. “Cosa importa avere un titolo di studio, finirai comunque a lavorare per una colonia,” ha detto un bambino.
I maestri e i presidi delle scuole palestinesi nella valle del Giordano hanno detto che i bambini che lavorano part-time nelle colonie durante i fine settimana e dopo la scuola arrivano spesso in classe sfiniti. Le autorità militari israeliane dichiarano che loro non rilasciano permessi di lavoro per i palestinesi al di sotto dei 18 anni per lavorare nelle colonie. Tuttavia i palestinesi non hanno bisogno dei permessi di lavoro israeliani per andare nelle fattorie delle colonie, che sono fuori dalle aree recintate delle colonie in cui i palestinesi devono avere un permesso per entrare.
Tutti i bambini e gli adulti che lavorano nelle fattorie delle colonie intervistati da Human Rights Watch hanno affermato di essere stati ingaggiati da mediatori palestinesi che lavorano per i coloni israeliani, di essere pagati in contanti, di non ricevere buste paga e di non avere contratti di lavoro. Israele nega la giurisdizione delle autorità palestinesi nelle colonie così come sulla maggior parte della valle del Giordano, ma secondo Human Rights Watch dovrebbe fare di più per applicare le leggi contro il lavoro minorile colpendo i mediatori.

Secondo inchieste giornalistiche e siti web di colonie e imprese, l’Europa è un importante mercato per l’esportazione di prodotti agricoli delle colonie, e alcuni prodotti sono esportati negli USA.  L‘UE è giunta ad escludere i prodotti delle colonie israeliane dalle tariffe agevolate previste per i prodotti israeliani, e gli Stati membri dell’UE hanno emesso avvertenze agli uomini d’affari affinché prendano in considerazione i rischi legali, finanziari e di immagine per il coinvolgimento nel commercio con le colonie, ma non hanno dato indicazioni per porre fine a questi rapporti commerciali. Gli USA continuano ad offrire in pratica un trattamento preferenziale ai prodotti delle colonie israeliane in base all’accordo commerciale USA-Israele. Gli USA dovrebbero rivedere l’accordo per escluderli. Il Dipartimento del Lavoro USA continua a stilare e a pubblicare una lista di più di 350 prodotti di Paesi stranieri che sono realizzati con l’utilizzo di manodopera coatta o con lavoro minorile in altri Paesi, ma non vi ha incluso quelli delle colonie israeliane.
Human Rights Watch afferma che altri Paesi e imprese dovrebbero farsi carico delle loro responsabilità non beneficiando delle, o contribuendo alle, violazioni dei diritti umani contro i palestinesi in Cisgiordania interrompendo i rapporti di affari con le colonie, compresa l’importazione dei prodotti dell’agricoltura delle colonie. “Le colonie sono fonte di violazioni quotidiane, anche contro i bambini,” dice Whitson. “Altri Paesi e imprese non dovrebbero trarne beneficio o appoggiarle”.

Scarica il rapporto completo in inglese
Traduzione di BDS Italia